Non ci stiamo. Il metodo della minaccia e del ricatto messe in atto da Arcelor Mittal per il tramite del CEO di Mittal Europa sono irricevibili.
Ricatto verso il Governo e, in particolare, verso la comunità tarantina tutta, compresa quella parte che ha creduto e crede che si possa conciliare la tutela dell’ambiente, della salute e del lavoro.
Ma qui, è bene che anche Mittal si metta bene in testa che a chiedere tutela sono i cittadini e i lavoratori dell’acciaieria tarantina i quali non possono più continuare a subire il clima di incertezza e di minaccia di perdita del lavoro, di mancata applicazione delle misure di sicurezza e di tutela della salute. E ciò vale anche per i lavoratori in appalto. Indebolire questo fronte di opposizione ai ragionamenti capotici di una impresa che è mera “gestrice” di un impianto come quello tarantino, significa mostrare il fianco di una debolezza che da tempo ormai non possiamo più permetterci.
E non vorrei che a preoccupare Mittal sia, più che l’esimente penale, la revisione dell’AIA, opportunamente richiesta dal Sindaco di Taranto e l’introduzione della Valutazione preventiva del Danno Sanitario, strumento indispensabile per la tutela della salute.
Mittal conosceva le condizioni in cui versava e versa lo stabilimento di Taranto. Lavori per quella promessa–pretesa di ‘ambientalizzazione’ anche a costo di ulteriori impegni per l’impiego di sempre più adeguate innovazioni tecnologiche. Se così fosse Arcelor Mittal dovrebbe avere l’umiltà di aprire al territorio, colloquiando con i settori della ricerca che da anni proprio su Taranto e la sua condizione ambientale ed epidemiologica stanno compiendo studi, ponendo in evidenza l’incontrovertibile dato di connessione tra industria e grado di contaminazione, e tornando ad avere un rapporto serrato con i lavoratori di quella fabbrica che su sicurezza, ambiente, procedure operative potrebbero insegnare al mondo come si fa. Invece si è scelta la strada peggiore: quella della cassa integrazione e ora quella della minaccia di una chiusura. Come se fosse la prima minaccia che in questi anni abbiamo ricevuto dal fronte della fabbrica. Ma saremo pronti ancora una volta a non abbassare la testa.
Lo abbiamo ribadito anche in segreteria con Giovanni D’Arcangelo e Eva Santoro: non esistono più deboli ed esposti di altri in questa vicenda. Un’intera comunità sta con il fiato sospeso, primi fra tutti i lavoratori che aspettano e rivendicano condizioni di lavoro più sicure sotto ogni punto di vista, ovvero, rispetto all’esposizione con gli agenti inquinanti, alla sicurezza degli impianti, al reddito. Spesso i lavoratori ci sembrano considerati come pedine di uno scacchiere che cambia in base alle strategie che vengono messe in atto da altri livelli, nella fattispecie da Arcelor Mittal. E questo non possiamo permetterlo a nessuno. Non si confonda la nostra pazienza e la propensione all’ascolto con la complicità a certe dinamiche.
Ora il 9 luglio torneremo a Roma. In quella sede mi aspetto che il ministro Di Maio voglia e sappia trovare il modo per non disperdere i pur importanti investimenti messi in campo sul piano industriale e ambientale, e poi mi attendo pochi giri di parole e un clima che riporti al centro della discussione le cose vere e possibili che abbiamo tutti il dovere di mettere in atto, cominciando caso mai dal rispetto verso tutte le parti in campo e verso un territorio che non è colonia dell’impero ma luogo in cui da anni si sperimenta e si mette a dura prova la nostra capacità di ascoltare e mediare nel bene di tutti.