Era l’incontro con il Sud che cambiava, davvero, per la prima volta, ma anche l’incontro con un mondo che per la Chiesa prima di Paolo VI era stato per tanto tempo difficile da comprendere, da interpretare. Non era una mera questione religiosa, era una questione sociale che la Popolarum Progressio cominciava a smantellare, non ponendo più argini stretti, confini invalicabili tra il cattolicesimo e il rifiuto del capitalismo. L’uomo al centro, prima del profitto.
Ma a Taranto questo non so quanto fosse stato recepito. O almeno le comunicazioni ufficiali e gli atti di quegli anni non ne hanno traccia. Il Papa decideva di trascorrere la notte più importante per i cattolici in un luogo di lavoro e questo bastava per rendere quell’appuntamento un evento.
Ma la Messa di Natale celebrata da Paolo VI all’interno della cattedrale d’acciaio, allora Italsider, è stato qualcosa di più. E’ stato il desiderio di scavalcare un muro, di correre incontro alla modernità, al progresso che in quei giorni si osannava sui giornali anche grazie all’arrivo (era il 3 dicembre del 1968 – ndr) del grande convertitore che avrebbe consentito la creazione del terzo impianto di produzione d’acciaio, al collaudo della Raffineria Shell, alla frenetica costruzione del quartiere degli operai intitolato al Papa. D’altronde era l’anno del primo orbitare dell’uomo attorno alla luna grazie alla missione di Apollo 8.
Quegli operai, e anche quell’evento, furono figli di quel tempo e il loro presepe di tubi era la rappresentazione plastica di un clima che a distanza di 50 anni sarebbe notevolmente cambiato.
Gli operai ci sono ancora, ma non più la classe operaia. E quel desiderio di costruire ponti di dialogo con quel mondo, è pressoché scomparso. Specie nella città che in questi ultimi vent’anni ha dovuto fare i conti con quel passato e quelle scelte.
Oggi il processo è invertito. Gli operai restano singoli tasselli e la fabbrica, da tempo privatizzata, resta un luogo invalicabile, dove l’incontro delle ragioni e quel dialogo, che Montini dichiarò subito di cercare, non esiste più.
Non ci si può arrendere però alla nostalgia del tempo che fu, anche perché a presagio di ciò che sarebbe accaduto in tutti questi anni di produzione d’acciaio nella nostra città, il 5 dicembre di quell’anno, a venti giorni dall’arrivo di Paolo VI in città, Vittorio Giambra, giovane operaio 27enne di una ditta dell’appalto Italsider, cadeva da una balaustra metallica posizionata a cinque metri d’altezza e moriva.
Era il Cristo laico che avremmo imparato a riconoscere tra i lavoratori degli appalti, tra gli ammalati di cancro, tra gli operai della palazzina LAF, o quelli che avrebbero pagato per ogni contestazione, ogni richiamo alle pratiche operative per la sicurezza, conquistate solo dopo anni di dure lotte sindacali in quella fabbrica che inevitabilmente si legava al destino di intere generazioni di tarantini e nuovi tarantini.
Dall’Eldorado del 1968 al difficile equilibrio tra lavoro e tutela dell’ambiente, che persino nella “Laudato Si” di Papa Francesco si torna a riproporre, non rinunciando mai all’uomo e alla dignità che il lavoro conferisce ad ognuno.
E se allora era la Chiesa che entrava in fabbrica, oggi è la fabbrica, per il tramite degli operai e dei lavoratori, che deve riconquistare la città, ricostruendo una identità collettiva che sui valori della dignità del lavoro, della sicurezza e della tutela ambientale ‘contamini’ un tessuto sociale spesso disgregato, disilluso e impoverito.
50 anni di storia da rileggere con attenzione sperando in quel progresso popolare che Paolo VI, oltre la catechesi, professò in quella notte tarantina di fronte agli operai e ad una comunità che non avrebbe mai dovuto disgregarsi.
Fonte foto: Corriere del Giorno – Emeroteca di Taranto