Taranto è terra di democrazia, di diritti e di libertà. La relazione introduttiva del segretario Peluso al IX Congresso della Cgil di Taranto

“Andare via da qui verso qualcosa … 

Era una strana nostalgia al contrario …

In realtà non era la nostalgia della patria

che in quel momento si faceva sentire,

ma la nostalgia della Terra.

Vedere quello che dalla coffa dell’albero maestro

della caravella di Colombo

aveva visto il mozzo quando all’alba,

con la voce rotta dall’emozione, aveva gridato:

“Terra, terra!”

(Sandor Màrai, in Terra, terra!)

 

 

Benvenuti e benvenute

carissimi e carissime compagni e compagne e voi Gent.li ospiti e autorità, che avete accolto il nostro invito a partecipare alla giornata di avvio del IX Congresso della CGIL di Taranto.

Vorrei rivolgere un particolare ringraziamento a Leonardo, Antonello, Francesca, Antonio, Marilisa, Alessandra, …, che hanno accettato di raccontarci in modo spontaneo ed emozionante di loro.  A questi giovani e giovanissimi, ai tanti come loro e a quanti spesso non hanno voce e restano esclusi dalla possibilità di realizzare i propri sogni e le proprie aspettative, vorrei dedicare questo Congresso.  Grazie di cuore.

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Cito dal documento del 2009 del XVI Congresso della CGIL.

“Il XVI° Congresso della CGIL (I DIRITTI E IL LAVORO OLTRE LA CRISI) si svolge nel pieno della più grande crisi economica, finanziaria e sociale dopo quella del 1929: la prima crisi realmente globale che è, insieme, anche crisi dell’equilibrio ambientale dell’intero pianeta.

Molti economisti ed istituzioni internazionali hanno ricostruito le origini, i processi e le responsabilità di questa situazione: essa è destinata a pesare sul nostro futuro e, soprattutto, su quello delle nuove generazioni, inoltre cambierà in profondità equilibri e assetti geopolitici in una nuova divisione internazionale del lavoro e dei poteri.

La CGIL ritiene che uno dei fattori fondamentali di questa crisi consista nella crescita di disuguaglianze nei paesi ricchi, nello spostamento di quote crescenti di reddito dai salari ai profitti e da questi agli investimenti finanziari, mentre nei paesi in via di sviluppo siamo di fronte alla scelta di contenere la domanda interna.

Così si determinano surplus finanziari sempre più grandi e sottratti alla domanda globale.

L’allentamento della politica monetaria, la formazione di una liquidità crescente, lo stimolo ai consumi attraverso il debito (che si coniuga con la scarsa regolazione e trasparenza di prodotti finanziari ad alto rischio) ha portato ad un punto di quasi non ritorno dell’economia mondiale. Infatti la crisi si è ritrasmessa rapidamente dai mercati finanziari, bancari e assicurativi all’economia reale, con il crollo della domanda internazionale e della produzione di beni e servizi, con una crescita progressiva della disoccupazione.

Fortunatamente, almeno fino ad ora e a differenza della crisi del 1929, l’azione concertata dei Governi ha contribuito a ridurre e a contenere gli effetti più drammatici della crisi finanziaria. Risorse pubbliche in quantità prima inimmaginabili sono state investite per questo obiettivo, mentre altre, molto inferiori, sono state utilizzate per sostenere protezioni, tutele sociali e redditi.

Chi aveva teorizzato l’autosufficienza ed il primato dei mercati – e la disuguaglianza come leva della crescita – ha riscoperto il ruolo insostituibile degli stati e del denaro pubblico, i tanti diseguali sono diventati improvvisamente cittadini assolutamente uguali quando si è trattato di indirizzare le risorse di tutti al salvataggio del sistema!

In questo la crisi che stiamo attraversando è anche crisi morale di valori.

Ora, di fronte a tutti, il problema che si pone è di portata straordinaria … Ogni crisi di carattere epocale ha dentro di sé anche i fattori del cambiamento …

Il cambiamento oggi si impone e, come tutti i cambiamenti, può avere esiti anche sociali, morali e di valore diversi”.

Dunque, era appena iniziata la crisi internazionale e la CGIL che si apprestava al Congresso aveva già compiuto un’attenta analisi della situazione, e si disponeva a varare un programma che l’avrebbe portata negli agli anni successivi ad avanzare una serie di richieste ed interventi legislativi presentando:

il “Piano per il lavoro”, “ La Carta dei diritti universali del lavoro”, “Laboratorio SUD”, “Il Piano straordinario per l’occupazione giovanile e Femminile”.  Ha sostenuto e cercato di praticare con forza, nonostante la disintermediazione, spesso da sola, altre volte con CISL e UIL, il ruolo fondamentale della contrattazione ad ogni livello e, in particolare, del Contratto Collettivo Nazionale, contrastando, con tutti i mezzi che le erano dati, il dumping contrattuale, lo sfruttamento, le pratiche illegali negli appalti e nel lavoro, l’introduzione di nuove forme di precarizzazione del lavoro, la politica di tagli indiscriminati al welfare (contribuendo ad una legislazione importante come la legge 199 (Contrasto al caporalato), il Nuovo Codice degli appalti e Leggi innovative sui diritti civili.

Ma la crisi è continuata a lungo, la politica ha seguito un’altra strada, i cambiamenti si sono visti, ma in peggio, se guardiamo la condizione reale di tantissimi lavoratrici e lavoratori, di pensionate e pensionate e, in particolare nel Mezzogiorno d’Italia, dei giovani.  In poche parole, sono aumentate le diseguaglianze.

Ora, in un contesto politico profondamente mutato, non solo in Italia, la CGIL ripropone nel XVIII Congresso la centralità del lavoro quale fondamento per l’uguaglianza, per lo sviluppo, per i diritti di cittadinanza, per la solidarietà e la democrazia, richiamando la necessità di un nuovo modello economico, non da sola nel dibattito internazionale, ma consapevole che occorrerà sviluppare grandi iniziative ad ogni livello per non correre il rischio che sovranismi e populismi riportino indietro l’orologio della storia.

In poco più di una settimana si sono svolti i Congressi provinciali delle nostre Categorie.  Ho riletto con attenzione tutte le relazioni introduttive e vi ho trovato una grande coerenza con il documento congressuale “ Il lavoro è “, ma anche la straordinaria consapevolezza che il tema del lavoro non può essere adeguatamente affrontato guardando solo a quanto avviene nei confini del nostro territorio o della nostra Italia, ma a quali drammatiche conseguenze abbia portato un sistema economico-finanziario che ha prodotto profonde disuguaglianze in Europa, tra Nord e Sud del mondo, ma anche all’interno delle comunità piccole e grandi.

Se la globalizzazione ha permesso a grandi fasce di popolazione di Paesi sottosviluppati di uscire dalla povertà e dall’indigenza, la sua versione liberista-finanziaria ha comportato aumento delle povertà, compressione dei diritti, in una parola sola aumento delle ‘disuguaglianze’, mercificando non solo il prodotto del lavoro, ma lo stesso lavoro.

C’è una frase dell’economista Robert Lucas che nel 2003 sintetizzava molto bene il paradigma dell’economia neoliberista che ha governato la globalizzazione:

“Le potenzialità di miglioramento delle vite dei poveri attraverso l’identificazione di modi diversi di distribuire la produzione attuale non sono niente a confronto del potenziale, evidentemente illimitato, dell’incremento della produzione”.

Ecco le parole d’ordine del neo-liberismo: produzione illimitata, crescita illimitata, crescita esponenziale dei consumi, ma tutto ciò, specie nei Paesi occidentali, in cambio della compressione dei salari, dei diritti, delle opportunità.

E tale crescita dei consumi è stata garantito attraverso l’indebitamento pubblico e/o privato che ha permesso di aumentare il benessere anche mentre il monte salari stagnava.

Fino alla bolla finanziaria del 2007 che negli USA ha fatto saltare il sistema, con conseguenze mondiali che riverberano ancora oggi.

Eppure, nonostante la crisi si è continuato a produrre ricchezze che però si sono concentrate nelle mani di pochissimi, se è vero, come è vero, che ordinando la popolazione mondiale per ricchezza si vede che la metà inferiore possiede meno dell’1 per cento della ricchezza totale, il 10% in cima ne detiene l’88% e l’1% di super-ricchi arriva a concentrare la metà di tutta la ricchezza.

Numeri contenuti nell’ottava edizione del Global Wealth Report prodotto dalla banca svizzera, che mostrano come le risorse siano andate a concentrarsi in sempre meno mani. L’1% più ricco aveva il 42,5% del patrimonio globale nel 2008, ed è ora salito al 50,1%.

La crisi, dunque, ha accentuato quelle disuguaglianze che il neo liberismo, alla base della globalizzazione finanziaria, aveva considerato come ‘male sopportabile’ e, al contempo, ha dimostrato che un sistema basato sull’idea che la crescita illimitata basata sullo sfruttamento di risorse naturali ed umane non era più e non è più in grado di generare quello sviluppo e quel benessere diffuso che ci si sarebbe attesi.

(Eppure nel 2007, in uno studio del Fondo monetario internazionale, due economisti, usando gli stessi strumenti analitici di Lucas, hanno dimostrato che l’aumento di benessere che deriva dalla redistribuzione dei redditi è di molto maggiore dell’aumento di benessere che deriva dalla pura e semplice espansione della “ricchezza delle nazioni”).

“Le disuguaglianze che oggi osserviamo nel mondo, nel nostro Paese, nelle nostre comunità non sono solo le disuguaglianze dovute all’esito di un processo (ad esempio: il neo liberismo e la crisi hanno aumentato la povertà in termini quantitativi e qualitativi – crescita abnorme della differenza salariale tra ricchi e ceto medio-bassi e forte limitazione della mobilità sociale) ma sono, in modo preoccupante, diseguaglianze di opportunità sia competitiva che non competitiva, intendendo per quest’ultima la garanzia che tutti abbiano le stesse possibilità di realizzare i loro progetti di vita indipendente” (A.B.Atkinson, in Disuguaglianza)

La crisi di tale sistema, o meglio la crisi del modo (liberismo) di gestire tale sistema, oggi richiede risposte decisamente alternative, ma c’è da intendersi sul significato che dobbiamo assegnare al termine alternative.  E questo vale livello globale, nazionale, locale.

Non deve meravigliare se oggi assistiamo al dilagare di comportamenti di intolleranza per la diversità, sfiducia in Istituzioni ed esperti, desiderio di comunità chiuse, domanda di poteri forti capaci di vietare e sanzionare.  Tratti autoritari che, come ha osservato già nel 2005 la psicologa Stenner, sono in contrasto con posizioni conservatrici e neo-liberiste e descrivono in modo preciso la reazione in atto in ampie masse popolari di tutto l’Occidente.

Si diffonde, peraltro, a mio parere, anche in chi non è ancora caduto al di sotto della soglia di povertà, la paura di finirci, di perdere quel poco di sicurezza economica e sociale.  Si diffonde, altresì, la rassegnazione di chi si trova da tanti anni in cassa integrazione, di chi terminati gli studi non riesce a trovare un lavoro, di chi vive la precarietà sistemica, di chi cerca di fare buona impresa e si vede circondato da malaffare, corruzione e burocrazia asfissiante e comincia a disperare che questo stato di cose possa cambiare e si affida ad una guida autoritaria che interpreta e anzi sollecita quelle intolleranze.

E tuttavia, io non credo che i sovranismi e i populismi siano una risposta politica organizzata in conseguenza della reazione delle masse popolari alla loro condizione di povertà e alienazione, ma sono anzi il mezzo con cui il capitalismo finanziario liberista gioca la sua carta per riorganizzarsi dopo la crisi profonda che ne ha minato le fondamenta e, quindi, non deve meravigliare se un miliardario affatto ravveduto quale è Trump diviene Presidente degli USA promettendo lotta alla disoccupazione e alla povertà, magari al prezzo della compressione dei salari anche lì, alla diminuzione di un welfare diffuso, alla rinuncia a politiche a tutela dell’ambiente.

Si potrebbe dire che la storia si ripete se commentando gli esiti della grande crisi del 1929, Karl Polanyi osservava che: *Si giunse ad un punto in cui né il sistema politico, né il sistema economico funzionavano in maniera soddisfacente.  Una sensazione di generale insicurezza si impadronì dell’intera società. Fu imboccata la scorciatoia fascista per salvaguardare la produzione al prezzo del sacrificio delle democrazie … Di conseguenza, la distruzione delle istituzioni democratiche rappresentò uno strumento di protezione per la salvaguardia del sistema industriale.”  E sarei portato a sostituire oggi il termine “industriale” con quello economico-finanziario.

Oggi, infatti, noi abbiamo in Italia un Governo che utilizza ampiamente la parola che noi abbiamo utilizzato nel 2009: cambiamento.

E’ mia impressione, tuttavia, che abbiamo un governo di destra, eccome se di destra, considerato che le politiche xenofobe e razziste rappresentano certamente il dato più eclatante dell’azione del Governo.  Dico del Governo, perché, se l’altra parte tace, eppure è stata maggioritaria nei consensi elettorali, a fronte dei respingimenti, delle chiusure dei porti, della chiusura dello SPRAR di Riace e conseguente deportazione degli ospiti, della ipotesi comunque di cancellazione del modello SPRAR, delle scelte di Amministrazioni locali governate dalla Lega di discriminare anche i bambini, allora, lo ribadisco, la responsabilità è del Governo intero.

Le destre xenofobe e razziste trovano alimento nella sfiducia, nell’ignoranza, nella rassegnazione, spostando il tiro sui più deboli: gli immigrati, le donne, gli omosessuali, ecc.  E a proposito di immigrati, bersaglio sono quelli che fuggono a guerre, carestie, fame, persecuzioni, ai danni ambientali e sociali cui anche noi europei abbiamo contribuito negli anni, con lo sfruttamento di risorse e armando fazioni politiche.  I neri, gli africani, quelli che arrivavano o arrivano sia pure in numeri più ridotti attraversando, a rischio della vita, il Mediterraneo.  Quelli ‘visibili’, che hanno bisogno di aiuto, di accoglienza, di sostegno e avvio a percorsi di integrazione, non quelli meno visibili che costituiscono gruppi chiusi, organizzati che pure si inseriscono nell’economia locale, come ad esempio ben conosce il settore della moda di Martina Franca.

Quelli contro i quali è facile scagliare il motto: “prima gli italiani”, che da un lato dà la sensazione o l’illusione agli ‘italiani’ poveri, fuori dal mercato del lavoro, che vivono in profondo disagio,  che finalmente qualcuno voglia occuparsi prioritariamente di loro, dall’altro libera quelle pulsioni negative che già albergavano in molti persino indipendentemente dalla loro condizione socio-economica.

Ed ecco che Salvini ha intravisto il rischio che il modello Riace, tornato alla ribalta nazionale dopo l’arresto del Sindaco, diventasse esempio di un’integrazione possibile, praticato e praticabile, un ostacolo alla sua strategia dell’odio e della propaganda razzista e per questo ha chiuso lo SPRAR e disposto il trasferimento degli extra-comunitari, per riportarli nell’invisibilità.

Alle politiche e agli atti di Salvini e del Governo, cui si contrappone una reazione spesso spontanea di movimenti e Associazioni, di singoli cittadini, cui pure noi abbiamo aderito e/o promosso, dobbiamo rispondere costruendo rapidamente le condizioni di una grande mobilitazione, con CISL e UIL innanzitutto, per dimostrare come è avvenuto a Riace, a Milano, a Catania e in altre piazze, ad Assisi in occasione della marcia della Pace, come è avvenuto a Berlino con la manifestazione antirazzista e anti xenofoba dei 250mila, che esiste un’altra Italia che non si rassegna al fatto che a fare opinione siano i troll da tastiera o i post di odio sui profili social.

E dobbiamo continuare a contrastare lo sfruttamento degli extra-comunitari, come degli italiani, anzi dovrei dire in particolare italiane (non a caso la Legge 199 di contrasto al Caporalato è dedicata alla nostra Paola Clemente, morta di fatica nei campi) vittime dello sfruttamento e della violenza psicologica e anche fisica dei caporali, non solo in agricoltura, ma anche in altri settori, come attestano le tante denunce che qui a Taranto la FLAI e la SLC con riferimento ai call center nei ‘sottoscala’ hanno fatto in questi anni.

E’ l’uguaglianza dei diritti nel lavoro la base per sconfiggere questa odiosa forma di costrizione di lavoratrici e lavoratori e che può contrastare lo sfruttamento che ben conosciamo in tanti ambiti lavorativi dove, non è necessariamente il caporale, ma un sistema governato dalle multinazionali che strozza l’economia e sfrutta il lavoro, come si è osservato ad esempio nel sistema della moda di Martina Franca.

E’ qui che avremmo bisogno della politica, di quel cambiamento che noi abbiamo invocato due Congressi fa e che continuiamo ad invocare.

Ma oggi, dopo un primo timido e parziale approccio a questi problemi attraverso l’emanazione del Decreto Dignità che, peraltro, rischia di provocare disastrose conseguenze per centinaia di lavoratori somministrati, come Nidil Taranto denuncia a proposito di Teleperformance, il Governo e in particolare la componente che fa capo a Di Maio, concentra la sua attenzione sul ‘reddito di cittadinanza’ e sulla ‘pensione di cittadinanza’, presentate come misure volte a ridurre le disuguaglianze di reddito, a rilanciare i consumi interni e quindi a creare le condizioni per la ripresa economica e quindi di creazione di nuovi posti di lavoro.

Non ci serve un approccio ideologico alla questione.  Come sempre dobbiamo valutare nel merito del provvedimento inserito nel DEF, delle risorse ivi destinate, delle modalità di realizzazione.

Ma non posso non porre delle domande.  L’introduzione del reddito di cittadinanza:

  1. si basa sul presupposto che a fronte di un futuro di decrescita, e di una prevedibile diminuzione di posti di lavoro dovuti anche all’innovazione tecnologica e digitale e all’uso nei processi produttivi dell’intelligenza artificiale, l’unica risposta sia una forma di protezione e assistenza a carico dello Stato?
  2. pone, quindi, un rischio di privatizzazione ulteriore dei servizi al cittadino, se la contropartita è il definanziamento della sanità, dell’istruzione pubblica, delle diverse forme di sostegno di tipo sociale già introdotte dalle precedenti legislature, degli stessi ammortizzatori sociali e del welfare più in generale?
  3. avrà effetti di trascinamento verso l’alto dei salari di chi lavora già per uno stipendio addirittura inferiore o pari ai 780 euro;
  4. aiuterà a far emergere il lavoro nero, molto diffuso soprattutto nel Mezzogiorno o rischia di sovrapporsi ad esso?

Ritengo che la risposta a queste domande sia fondamentale per comprendere le effettive finalità del reddito di cittadinanza e dell’impianto normativo che ne sosterrà l’introduzione.  In particolare, se la risposta alla prima domanda dovesse essere un SI, allora si trasmetterebbe un senso di frustrazione e di rassegnazione rispetto alla necessità di garantire un lavoro a tutti quale primaria affermazione della dignità della persona.

Certo, il vice ministro Di Maio, si è prodigato nel dare un senso diverso a quello temuto, collegando, peraltro, il reddito di cittadinanza alla riforma dei Centri per l’Impiego e al loro potenziamento. Anche qui ci servirà valutare non solo i tempi di realizzazione di tale progetto, considerato lo stato attuale dei Centri per l’Impiego.  Per di più, se il modello cui si guarda è quello tedesco, si considera che in Germania vige un altro modello di istruzione e formazione, il cosiddetto modello duale? Tanto per dirne una!  Esportare i modelli non è mai stato cosa semplice.

E qualche dubbio in più mi sovviene, se guardo le proposte strumentalmente più pragmatiche dell’altra componente di Governo, la Lega: riduzione delle tasse per le aziende e per chi guadagna di più, parziale abolizione della Fornero per sostituire pensionati con nuove assunzioni, continuità degli investimenti nelle grandi opere (TAV, TAP, ecc.), privilegiare l’economia del Nord anche attraverso il sostegno al potenziamento dell’autonomia regionale.  Insomma un’Italia più divisa, più diseguale nelle opportunità dove il reddito di cittadinanza serve solo a stemperare in piccola parte tale situazione.

Non voglio essere tranchant nel mio giudizio, in attesa di poter conoscere più approfonditamente i provvedimenti del Governo contenuti nel DEF e considerato che il Congresso della CGIL che si svolgerà a gennaio prossimo potrà valutarne appieno la natura e la corrispondenza alle richieste del mondo del lavoro che rappresentiamo.  Tuttavia, guardando solo al contesto locale, avrei preferito proposte del Governo tese a: avviare un piano di assunzione nella P.A., nella Sanità, negli Enti Locali (già questo ci restituirebbe migliaia di posti di lavoro oggi assolutamente urgenti per il funzionamento della stessa P.A.); investire in infrastrutture atte a sostenere l’impresa piccola e media e a creare condizioni per insediamento di imprese innovative e di più grandi dimensioni; finanziare i Comuni per la rigenerazione urbana in particolare delle periferie, per il potenziamento del sistema di istruzione, dell’Alta formazione e della Ricerca, specie nel Mezzogiorno, favorendone non la subordinazione al modo dell’impresa, ma il ruolo di spinta a processi innovativi, di sostenibilità e di tutela dei prodotti dell’economia locale (agricoltura, pesca, turismo, ecc.).

E spererei di trovare nel DEF un impegno a rilanciare il Contratto Istituzionale di Sviluppo, imprimendo un’accelerazione soprattutto agli interventi di bonifiche ambientali.

Ma, se proprio una battaglia con l’Europa, anzi direi nell’Europa dobbiamo fare, allora è quella di un’Europa che assuma un diverso paradigma economico e sociale.  A partire dai giovani, come i nostri ospiti che abbiamo ascoltato, da quello cui aspirano, dalle loro passioni, dalle loro competenze e speranze che sempre più spesso riescono a trovare una possibilità di realizzazione altrove rispetto alla comunità di appartenenza.  E non si tratta porre limiti alla loro voglia di muoversi nel mondo e di fare esperienze cosmopolite.  Ma di rendere ciò eventualmente una scelta e non una condizione necessaria.

Recentemente la Fondazione Di Vittorio ha svolto un’analisi della situazione giovanile dal punto di vista occupazionale, registrando una popolazione, anche attiva, che invecchia, mentre molti giovani emigrano, quelli che possono o hanno voglia di rischiare di più, mentre restano qui i più deboli per condizione sociale ed economica e per titolo di studio.  In generale, osserva il rapporto della Fondazione DI Vittorio, l’età̀ resta un elemento discriminante sul lavoro.  Dieci anni fa il tasso di occupazione dei giovani era più̀ elevato di quello dell’età̀ matura (50,7% contro 47,1%): nel secondo trimestre 2018 i punti di differenza sono diventati 19, ma a favore dei più anziani (41,4% contro 60,3%).   Simmetricamente, il tasso di inattività dei giovani, che era quasi di 9 punti inferiore a quello delle classi di età̀ mature, è nel secondo trimestre 2018 di circa 13 punti superiore (48,5% contro 35,4%).

Il tasso di disoccupazione, così come il numero di disoccupati, è cresciuto in tutte le classi di età: tuttavia, quella giovanile aumenta di +7,9 punti percentuali e più del doppio della fascia intermedia e della fascia matura.

Nell’intera fascia di età lavorativa 15-64 anni il tasso di occupazione è tornato in sostanza quello di 10 anni fa (58,7%), così come è accaduto per il numero di occupati.   Ma il tasso di occupazione italiano resta ancora distante da quello medio europeo e dei principali Stati (circa -16 punti dalla Germania, -6 dalla Francia e -3 dalla Spagna).

Insomma, in Italia, nonostante il ridotto peso demografico e la minore propensione al lavoro, ci sono quasi 330 mila giovani disoccupati in più̀ rispetto a dieci anni fa e si riscontra anche una crescita (+1,2 punti) degli inattivi Neet, giovani che non studiano, non hanno un lavoro e, in questo caso, nemmeno lo cercano.

La situazione giovanile appare ancor più̀ critica nel Mezzogiorno: oltre 20 punti percentuali separano infatti i tassi di occupazione (29,8%) e disoccupazione (32,4%) meridionali da quelli del Nord e circa 15 da quelli dell’Italia Centrale. Lo scarto resta consistente anche per il tasso di inattività̀; superiore di oltre 13 punti a quello del Nord e di circa 10 a quello del Centro. Il gap territoriale nei tassi di disoccupazione giovanile del Mezzogiorno rispetto al Nord e al Centro si è ulteriormente allargato nel decennio di 5 punti percentuali.

Va sottolineato, comunque, che l’offerta di lavoro non riesce a generare la stessa quantità di lavoro, in termini di ore lavorate, raggiunta prima della crisi; le generazioni che si sono affacciate sul mercato del lavoro non hanno trovato sbocchi occupazionali sufficienti, nonostante fossero meno numerose di quelle che andavano a rimpiazzare.

La crescita dell’occupazione matura ed anche anziana potrebbe essere messa in connessione con gli interventi legislativi più̀ recenti che hanno spostato ulteriormente in avanti l’età̀ del pensionamento, pur non escludendo altri fattori già visibili prima della crisi, come la crescita del tasso di scolarizzazione e l’aumento del tasso di partecipazione al mercato del lavoro tra i quaranta e i cinquant’anni.

Occorre, dunque, un rilancio della politica industriale e degli investimenti pubblici e privati che, assegni al lavoro, prima che ai sussidi talora pure necessari, il ruolo fondamentale di riconoscimento sociale ed economico e della dignità della persona.  E occorre un piano straordinario per l’occupazione giovanile accompagnato da una politica fiscale progressiva fortemente redistributiva a favore dei lavoratori e dei pensionati.  E questo è il miglior modo di garantire le pensioni non solo a chi oggi lavora e ci sta per andare, ma anche alle future generazioni.

Di tanto abbiamo parlato molto in questi anni e in particolare in questi mesi, dedicando proprio alla condizione giovanile l’iniziativa svolta a Martina Franca, lo scorso mese di marzo, dal titolo: “Che impresa per i giovani restare in Puglia”.

Più lavoro per i giovani e per le donne, più qualità e parità di condizioni salariali, più investimenti pubblici in tale direzione, più politiche redistributive.  Ecco in cosa l’Italia si deve impegnare a chiedere a se stessa e all’Europa, in una battaglia vera che punti al superamento del modello neo-liberista e traguardi un’altra idea di sviluppo e un diverso modello economico.

Una diversa prospettiva deve tener conto che, oltre ad una logica redistributiva, dobbiamo guardare a fenomeni che sempre più costituiscono una minaccia per tutta l’umanità: il disastro ambientale che potrebbe conseguire ai grandi cambiamenti climatici generati dall’uomo, attraverso lo sfruttamento delle risorse ambientali e l’ingente immissione nel suolo, nelle acque, nell’aria di sostanze inquinanti e l’avanzamento dell’Innovazione tecnologica che si potrà tradurre non solo nell’automazione, ma persino nella sostituzione dell’uomo nei processi decisionali sottostanti la produzione, attraverso l’intelligenza  artificiale.

“Non vanno cercate invece strategie diverse di governo dell’economia e del mercato globale che pongano alla base l’equilibrio tra la tutela ambientale, quella del lavoro, quella della persona?”.   È il messaggio lanciato appunto da Kate Raworth ne “l’Economia della ciambella”, definendo lo spazio equo e sicuro per l’umanità nell’equilibrio tra risorse disponibili e loro utilizzo attraverso un’economia rigenerativa e distributiva.

Eppure in questa direzione si sono orientati i Capi di Governo adottando l’agenda 2030 che ha definito gli obiettivi di benessere equo e sostenibile, i cosiddetti 17 goals (indicatori del BES – Benessere Equo e Sostenibile), articolati in 139 target, con 240 indicatori. Tra gli obiettivi la lotta alle disuguaglianze, la lotta alle povertà e alla fame, la ridistribuzione delle ricchezze, l’aumento in termini quantitativi e qualitativi del lavoro. Quindi tra gli obiettivi che gli Stati a livello mondiale dovrebbero raggiungere nel 2030 non vi sono solo la tutela ambientale, ma anche quelli della tutela della persona e dei lavoratori in un’ottica di equilibrio, di solidarietà, di affermazione del diritto alla vita, alla salute, al lavoro, al welfare.

Ma come recentemente sottolineato nel rapporto ASviS 2018 (Alleanza italiana per lo Sviluppo Sostenibile, di cui fanno parte anche CGIL, CISL e UIL), con riferimento alla situazione dell’Italia, su molti indicatori si notano peggioramenti:

  • Obiettivo 1 (Porre fine ad ogni forma di povertà nel mondo), il cui indicatore, dopo il forte peggioramento degli anni 2010-2014, resta su livelli molto bassi. E’ peggiorata la povertà assoluta e relativa, nonché il numero di individui in famiglie a bassa intensità lavorativa;
  • Obiettivo 8 (Incentivare una crescita economica duratura, inclusiva e sostenibile, un’occupazione piena e produttiva e un lavoro dignitoso per tutti). Solo nel biennio 2015-2016 si osserva un lento recupero, trainato dall’aumento dell’occupazione;
  • Obiettivo 10 (Ridurre l’ineguaglianza all’interno di e fra le Nazioni). Dal 2010 in poi l’indicatore relativo all’Italia segna un evidente peggioramento. Anche se dal 2014 aumenta il reddito disponibile, contestualmente cresce il rapporto tra il reddito dei più ricchi e quello dei più poveri e la percentuale di persone che vivono in famiglie con un reddito disponibile inferiore al 60% del reddito mediano;
  • Obiettivo 11 (Rendere le città e gli insediamenti umani inclusivi, sicuri, duraturi e sostenibili) per il quale il confronto con il 2010 continua ad apparire negativo, anche se nell’ultimo anno la tendenza al miglioramento permane, dovuta a una diminuzione dell’indice di bassa qualità dell’abitazione e di quello relativo alle abitazioni che presentano problemi, in presenza di un aumento della quota dei rifiuti urbani conferiti in discarica sul totale dei rifiuti urbani raccolti;
  • Obiettivo 15 (Proteggere, ripristinare e favorire un uso sostenibile dell’ecosistema terrestre, gestire sostenibilmente le foreste, contrastare la desertificazione, arrestare e far retrocedere il degrado del terreno, e fermare la perdita di diversità biologica). Con riferimento all’indice di copertura di suolo e quello di frammentazione del territorio, si evidenzia una tendenza estremamente negativa causata dal netto peggioramento di entrambi gli indicatori.

Il recente rapporto OCSE fotografa un aumento delle disuguaglianze tra Nord e Sud dell’Italia.  In Puglia il tasso di disoccupazione giovanile è superiore al 50% e condivide le ultime posizioni in classifica con Campania, Sicilia e Calabria.  Inoltre, dato fra i più negativi, solo il 59% della forza lavoro in Puglia ha conseguito almeno un titolo di istruzione secondaria.

Sebbene ancora il Rapporto ASviS riscontri per:

  • l’Obiettivo 4 (fornire un’istruzione di qualità equa e inclusiva, e opportunità di apprendimento per tutti), un miglioramento sensibile dell’indicatore. Rispetto al 2015 continua a migliorare la quota di persone di 30-34 anni con titolo universitario e a diminuire il tasso di uscita precoce dal sistema di istruzione e formazione. Nonostante i miglioramenti, però, l’Italia continua a essere ancora molto indietro rispetto alla media europea su tutti gli indicatori di istruzione e formazione;

e per

  • l’Obiettivo 5 (Raggiungere l’uguaglianza di genere e l’empowerment di tutte le donne e le ragazze). Dopo il forte aumento registrato fino al 2015, si rileva una flessione nel 2016 spiegata dalla diminuzione del rapporto tra i tassi di occupazione delle donne con figli in età prescolare e delle donne senza figli, e dalla netta diminuzione della partecipazione delle donne negli organi decisionali, un dato 13,3%, ancora ben al di sotto della media europea (23,9%);

Queste situazioni sono state oggetto di illustrazione e analisi in tutte le relazioni dei Congressi provinciali di Categoria svoltesi negli scorsi giorni e gli interventi dei delegati sono stati occasione di approfondimento, con attenzione alla situazione locale e corroborate dall’esperienza diretta che viviamo a contatto di lavoratori, pensionati, disoccupati, giovani in formazione, nei luoghi di lavoro e nelle nostre sedi camerali.

E se ci attendiamo dal Governo italiano e da quelli europei il rafforzamento delle azioni, dei provvedimenti legislativi, degli investimenti nella direzione dell’economia circolare e degli obiettivi dell’Agenda 2030, è altrettanto necessario comprendere come tali azioni vadano assunte anche al livello locale. Cogliere la dimensione locale è assolutamente indispensabile per conseguire gli obiettivi posti in termini qualitativi per la vita dei singoli e delle comunità cui appartengono.

Per questo abbiamo bisogno di piattaforme territoriali e di definire obiettivi e strategie condivise che devono essere oggetto di confronto con le Istituzioni locali e portate avanti da noi con determinazione e con lo spirito del Sindacato contrattualista.

Non si tratta di fare una lista di ‘buone intenzioni’, ma di avere la pretesa di contare nelle decisioni e, quindi, proporci come controparte.

Ma quando parlo di contrattazione territoriale, non mi riferisco solo all’azione della Confederazione, ma a quell’insieme di obiettivi perseguibili anche attraverso la contrattazione sociale e quella di sito o aziendale.

Il caso ILVA può essere paradigmatico in questo senso, per tutto quello che concerne la questione ambientale e la possibile introduzione di nuove tecnologie e processi produttivi.  Lo abbiamo detto e scritto molte volte nei mesi che hanno accompagnato la difficile trattativa, condividendo i contenuti delle nostre proposte con tutto il gruppo dirigente.  Dobbiamo continuare a farlo, ricreando alleanze, interloquendo con le istituzioni anche locali, cui vanno chiesti impegni precisi, partendo ad esempio dalla richiesta di adozione della VIIAS (Valutazione di integrata di impatto ambientale e sanitario) che, proprio a proposito di ILVA, noi abbiamo invocato dall’inizio della vertenza.

Al di là degli aspetti tecnico-giuridici, scientifico-metodologici che non sono di nostra competenza, richiamando le Linee guida dell’ISPRA sulla VIIAS, mi preme richiamarne il grande valore ‘democratico’ di strumento di partecipazione attiva dei cittadini e di assunzione di consapevolezza che un tale strumento può garantire, per il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile.

Per questo tutte le Categorie della CGIL si dovranno sentire coinvolte nella costruzione di un percorso dal basso che spinga il legislatore a legiferare in proposito.

Negli scorsi mesi abbiamo individuato gli obiettivi della nostra azione più in generale, per la costruzione di una piattaforma territoriale, che auspichiamo di condividere con CISL e UIL, rivendicando che nelle iniziative degli Enti Locali e imprenditoriali, vi sia attenzione agli aspetti, ambientali, alle ricadute sociali, alla qualità e innalzamento dell’occupazione (introducendo precisi misuratori), rispetto di clausole sociali e dei tanti protocolli di legalità che abbiamo sottoscritto in Prefettura.

Questi gli obiettivi:

NO consumo di suolo

No cementificazione

SI Piano delle coste

SI rigenerazione urbana a partire dai quartieri periferici

SI mobilità sostenibile

SI alla strategia ‘rifiuti zero’. È positivo che, finalmente, la Regione si sia data una serie di obiettivi per i prossimi anni, tra i quali portare la raccolta differenziata al 65% nel 2020.  Ma i Comuni del tarantino sono tutti prossimi a tale obiettivo?  Non credo si possa dire, ad esempio, del Comune capoluogo

SI abbattimento degli inquinanti della grande industria

SI produzioni alimentari rispettose dell’ambiente

SI bonifiche e recupero ambientale, produttivo (mitili, pesca) e sociale dei luoghi di pregio ambientale e culturale

SI sviluppo di luoghi di aggregazione culturale, per giovani e anziani

SI ad una sostenibilità integrata nelle strategie aziendali

(Secondo lo studio di Kpmg, 205 società hanno elaborato le dichiarazioni non finanziarie (Dnf). Di queste, il 59% è al primo anno di reporting di sostenibilità. In 26 si sono dotate di Piani di sostenibilità strutturati, mentre 61 aziende (il 31% di quelle analizzate) citano gli Obiettivi di sviluppo sostenibile. Tra quelli menzionati più frequentemente figurano i Goal 7 (energia pulita e accessibile), 8 (lavoro dignitoso e crescita economica), 9 (imprese, innovazione e infrastrutture) e 13 (lotta contro il cambiamento climatico). Risulta meno avanzata la governance della sostenibilità: solo il 16% del campione ha istituito un comitato endo-consiliare di sostenibilità, mentre il 14% ha delegato le responsabilità dei temi Esg (environmental, social, governance) a un comitato preesistente).

In questo solco ci siamo mossi con le tante nostre iniziative, inserite in un contesto più ampio che sono discese dalla Piattaforma regionale costruita in modo collettivo e presentata nella grande iniziativa svolta proprio a Taranto nel febbraio 2017 alla presenza di Susanna Camusso e dal titolo

“SVILUPPO-LAVORO-AMBIENTE, Le proposte della Cgil per la crescita sostenibile e l’occupazione in Puglia”.

In questa logica dobbiamo anche intensificare il nostro lavoro e la nostra rivendicazione sui temi socio-assistenziali e della sanità, i cui problemi restano ancora aperti, e per questo dobbiamo coordinare al massimo l’impegno delle Categorie e insieme dobbiamo sostenere la proposta di legge regionale di iniziativa popolare denominata “Invecchiamento attivo e buona salute”.

Non mi addentro nelle tante questioni specifiche del territorio (sia negative che positive) che tanto accuratamente sono state trattate nei Congressi di base e territoriali di Categoria.  Proporrò, dopo il nostro Congresso, di farne un’elaborazione sintetica, a partire dalle relazioni dei Segretari Generali e dei documenti finali approvati dai Congressi stessi, quale strumento a disposizione di tutti e tutte per lo sviluppo delle nostre iniziative.

Consentitemi, infine, un ringraziamento sentito a Giovanni D’Arcangelo ed Eva Santoro della Segreteria confederale, ai compagni e alle compagne della struttura confederale, Aldo Tedesco e Rosa Chiochia, alle compagne del Servizio Orientamento Lavoro con le quali stiamo condividendo un interessante progetto elaborato con Nidil rivolto ai giovani, a tutte le compagne e i compagni che a vario titolo (Leghe pensionati, operatori INCA e CAAF e Ufficio legale, Responsabili di sede e volontari – che dopo essere stati a lavoro dedicano il tempo residuo all’attività sindacale e di servizio).  Ognuno di loro, insieme a tutti noi, con quotidiano impegno, contribuisce a fare della CGIL la grande Casa dei diritti.  W la CGIL.

Paolo Peluso

17 ottobre 2018

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