“Di fronte ad un Governo completamente disinteressato alla proposta che viene dal mondo del lavoro, non resta che tornare in piazza. Di fronte alla precarietà diffusa, ad una inflazione che si mangia stipendio e pensioni, non resta che tornare a manifestare, perché la questione salariale e occupazionale non è mera questione sindacale, è questione etica strettamente connessa alla disuguaglianze, alla povertà diffusa, al grado di disperazione di chi non riesce a pagare cibo, carburante, bollette, di chi non riesce a curarsi perché la salute è garantita solo a chi è ricco e può permettersi di pagare per saltare le lunghe iste d’attesa. Perchè si è poveri anche lavorando”.
I segretari della CGIL e della UIL, Giovanni D’Arcangelo e Stefano Frontini, aprono la conferenza stampa che illustra le ragioni e le modalità di sciopero del prossimo 29 novembre, con queste parole.
Lo sciopero generale voluto a livello nazionale dai leader Maurizio Landini e Pierpaolo Bombardieri, è il no di parte del sindacato confederale alla manovra economica del Governo, che secondo i due esponenti di CGIL e UIL promette austerità e sacrifici sempre per i soliti.
Parliamo della più grande perdita salariale degli ultimi 50 anni– dicono – Perché ben 5,7 milioni di dipendenti del settore privato guadagnano mediamente meno di 10.800 euro lordi annui. Per l’ISTAT questi lavoratori non fanno altro che ingrossare la platea dei 2,2 milioni di famiglie che vivono in Italia in condizione di povertà assoluta.
In questo contesto il fronte sindacale disegna un quadro a tinte ancora più fosche.
Nello specifico CGIL e UIL fanno riferimento non solo alla perdita del potere di acquisto di lavoratori e pensionati, ma anche alla crescita della precarietà, del lavoro nero e sommerso, ma anche a un progressivo indebolimento del welfare pubblico: sanità, istruzione, casa, trasporto pubblico, enti locali.
Sui contratti bisogna fare molto di più.
Innanzitutto rinnovarli – spiegano D’Arcangelo e Frontini – adeguarli al caro inflazione. Così come serve rivalutare le pensione, rafforzare ed estendere la quattordicesima e riformare il sistema previdenziali superando la Monti-Fornero.
Ma l’annunciato taglio del cuneo fiscale?
Viene pagato sempre dagli stessi, i lavoratori dipendenti, perché finanziato solo ed esclusivamente dal maggiore gettito IRPEF– dicono – quindi con una mano si prende e con l’altra si fa finta di dare. Nessun intervento di natura fiscale riguarda la grande evasione, non il piccolo imprenditore o commerciante che non ce la fa, ma i grandi gruppi industriali che incassano extra-profitti e poi non contribuiscono all’equità sociale del Paese.
Se le ragioni nazionali già convincono quelle locali sono un’urgenza che dovrebbe spingere tutti in piazza.
Taranto è figlia di una vera e propria azione di fallimento della politica industriale di questo paese – dichiarano Frontini e D’Arcangelo – Perchè nella manifattura non basta difendere gli asset produttivi, ma avviare investimenti che sappiano difendere l’occupazione, tutelando anche salute e sicurezza.
E i tavoli di vertenze tarantine ormai sono troppi e infiniti.
La storica vertenza ex ILVA, ma anche quella di Hiab, Leonardo o del Porto di Taranto. Ma anche l’incredibile vicenda degli oltre 150 precari storici degli appalti comunali. O l’emblematica storia dei dipendenti del Comune di Roccaforzata.
Nessuno più è al sicuro – dicono i segretari di CGIL e UIL – e quella che si annuncia come la più grande manifestazione dopo quella del 2014 contro il Jobs Act è solo la reazione civile per difendere chi non ce la fa più.
E le previsioni rispetto al mercato del lavoro di Taranto non promettono nulla di buono.
Le statistiche della CGIA di Mestre per il capoluogo e la sua provincia prevedono entro il 2034 una perdita di occupazione del 13,47%.
Crisi industriali, denatalità, invecchiamento progressivo della popolazione e lavoro irregolare e sommerso, convergono a creare il fenomeno della “desertificazione” sociale, umana e produttiva.
Destinati all’estinzione. Così mentre il Titanic affonda l’orchestra continua a suonare e a ignorare l’urgenza di dare a Taranto un’altra possibilità. – affermano – Ancora nulla si sa, infatti, dei bandi destinati al territorio dal Just Transition Fund: ben 800 milioni di euro (il 70% dei quali andrebbe speso entro il 31 dicembre 2026 pena la restituzione all’Europa – ndr) che l’Unione Europea ha previsto per investire in quelle aree dove è urgente, e diremmo vitale, superare il modello di produzione industriale a carbone.
Ma non c’è mai fine al peggio.
Taranto non è un paese per giovani ed è nemico delle donne.
Quì solo il 28,6% lavora – dicono – si tratta di un valore che è la metà di quello maschile (dati ISTAT 2023 – ndr) e che consegna a Taranto e alla sua provincia la maglia nera sul tasso di occupazione femminile quart’ultima dietro solo a Caltanissetta, Crotone e Napoli. Ultima in Puglia. Oggi 25 novembre tutti scriveranno di donne ammazzate, offese, violentate, ma pochissimi parleranno delle ragioni che spesso le conducono ad essere così socialmente ricattabili La società e la politica che non interviene è complice di ogni singolo atto di violenza.
La data del 29 novembre si annuncia dunque di grande significato sia a livello nazionale che a livello locale.
Lo sciopero riguarderà tutte le categorie e l’intera giornata o intero turno di lavoro.
A Taranto a partire dalle 9.00 di venerdì 29 novembre è previsto il raduno del corteo che con partenza dal piazzale antistante l’ingresso Arsenale di Taranto (Via Di Palma), si svilupperà lungo le vie cittadine fino al comizio finale, previsto alle 10.30 in Piazza Maria Immacolata.