Giovanni D’Arcangelo sulle pagine nazionali della Gazzetta: “Il Primo Dicembre tutti abbiamo buoni motivi per scioperare”

Taranto è ancora una volta una polveriera su cui restano accese numerose micce. Ora il sindacato confederale (senza la CISL) torna a scioperare e a porre l’accento sulla soluzione delle vertenze attraverso una transizione giusta che sia non solo ambientale e produttiva, ma anche sociale e occupazionale. Lo sciopero vale ancora come metodo?

Al di là degli slogan, ad esempio sul cuneo fiscale che in realtà come confederali ci eravamo già conquistati con il Governo Draghi e questa è solo una proroga di quel provvedimento, è evidente che molte questioni che riguardano i pensionati, i lavoratori, le categorie più disagiate, e il Sud con Taranto in testa, sono considerate un fastidio da questo Governo. I salari non crescono come crescono i prezzi e quindi per la prima volta nella storia anche chi lavora è povero. Poi ci sono oltre 3 milioni di lavoratori e lavoratrici che sono di molto al di sotto dei 9 euro l’ora e quindi oltre al salario minimo per legge che avevamo proposto diventasse una soglia di civiltà. Oltre 100mila ragazzi e ragazze ogni anno vanno via dal nostro Paese e il 22% di loro non lavora e non studia. A Taranto il dato è ancora più inquietante. I cosiddetti NEET sono il 33% della popolazione. Tutte queste persone sono scomparse dalle legge di bilancio. Per non parlare poi del fatto che se devi fare una tac o una colonoscopia hai una lista d’attesa lunga 9/10 mesi Probabilmente questo Governo ha un problema di ascolto e empatia con le classi più deboli. Peccato che siano quelle che portano avanti il paese.

In questo quadro generale come si inserisce la provincia di Taranto?

Beh la situazione è sotto gli occhi di tutti. Siamo la generazione che paga per le scelte non oculate del passato. Siamo quelli che finiti in fabbrica perché spesso l’alternativa non c’era, ora sanno benissimo che la transizione è l’unica via. Ma siamo anche la stessa generazione che vede un Ministro del sud come Fitto, pugliese come noi, restare in silenzio mentre si spostano i fondi per il progetto di DRI Italia (l’impianto di pre-riduzione indispensabile per l’installazione di forni elettrici all’interno dell’ex ILVA) dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza a alla programmazione di fondi nazionali, come se il caso ILVA non avesse l’urgenza e la drammaticità di una ripresa immediata dopo così tanta resilienza da parte dei cittadini di Taranto, ma soprattutto da parte dei lavoratori di quell’acciaieria, in cui ad oggi si produce solo incertezza e cassa integrazione.

Molti obiettano però il fatto che si parli solo di quella vertenza, senza pensare alle altre opportunità che si potrebbero presentare sul territorio.

Vorremmo farlo eccome. Nel giugno di quest’anno siamo stati i promotori, intendo come sindacato confederale, di un protocollo con Comune e Provincia di Taranto, ZES, Università del Salento, Università di Bari, Politecnico e Camera di Commercio. Quello strumento serviva a far incrociare le risorse con le vere necessità del territorio. Ci scontriamo però con la lentezza burocratese del Governo che non stabilisce le linee guida su come bisogna attuare le progettualità e su come spendere le risorse. Si gioca alla propaganda e l’orchestra continua a suonare i valzer mentre il Titanic va a fondo. Siamo un paese, ma anche un territorio, distonico. Con le parole ci si riempie di orgoglio italico, si fa il minuto di silenzio per Giulia Cecchettin, si parla di cultura, radici, di rinascita, ma poi la realtà è altra. Si taglia sulla sanità e sull’assistenza sociale, si lasciano andare in malora i luoghi della cultura, gli archivi, i musei tagliando sul personale ed esternalizzando. Si taglia sulla scuola e sulla formazione dei giovani e mentre ci si indigna per l’ennesimo assassinio di una donna, si chiudono i consultori per l’assistenza psicologica. Se questa è l’idea di sviluppo della nostra politica comprenderà che il 1° dicembre tutti hanno buone ragioni per tornare in piazza con noi. E anche sul racconto di quello che drammaticamente sta attraversando il paese la stampa deve avere un moto di orgoglio.

Cosa intende?

Noi alcuni giorni fa abbiamo svolto un seminario formativo che metteva insieme giornaliste e giornalisti e delegate e delegati sindacali di luoghi di lavoro. Per troppo tempo associazioni, movimenti, a volte ego-riferiti e formati da tre persone, sono stati “innalzati” a voce di questa città. Beh non lo sono. O almeno non sono la voce della maggioranza di questa città che lavora in questa o quella fabbrica, nelle corsie degli ospedali e nei luoghi di cura, nelle campagne, nelle fabbriche in crisi, nei negozi del commercio, nei trasporti o sul fronte del sociale e della scuola. Forse è arrivato il tempo di raccontare la storia da quel punto di vista e tornare a dare dignità al lavoro. Mi permetto di dire anche al lavoro della stampa che come nel caso della Gazzetta, oggi, affronta l’ennesima salita. Mi dia l’occasione di dire che ci auguriamo che venga salvaguardato quel patrimonio di storia giornalistica fatto del lavoro delle persone che non possono stare in cassa integrazione vita natural durante. Ne abbiamo già perse troppe di testate autorevoli. Si faccia di tutto per salvare la voce del giornale mantenendo tutti i profili professionali. E non è il momento di rimanere senza voce. E non lo è mai.

Intervista del direttore Mimmo Mazza a pag. 3 de La Gazzetta del Mezzogiorno del 27 novembre 2023

Precedente 25 novembre. Oltre la commozione. Ronsisvalle: “Servono gli psicologi nei consultori”